lunedì 30 settembre 2019

C’era una volta Tarantino



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Ho sempre avuto un problema con Tarantino, per molto tempo l’ho considerato un regista sopravvalutato capace di prendere le migliori idee da film meno conosciuti e mettere tutto insieme in pellicole dal montaggio accattivante e non lineare. Non amo Pulp Fiction, apprezzo Le Iene e mi piace Jackie Brown. Col tempo ho ri-provato a guardare i suoi film senza pregiudizi di alcun tipo, il nostro rapporto è considerevolmente migliorato: ho imparato ad apprezzare un regista dal ritmo narrativo incalzante, una tecnica ineccepibile, innamorato del cinema. Probabilmente ad oggi il mio film preferito è “A prova di morte”, del progetto Grindohouse, ovvero realizzare nel 2007 con un budget stellare dei film che si rifacevano ai b-movie (o addirittura z-movies) degli anni ‘70, dove il budget era invece irrisorio. L’operazione fu un flop a livello commerciale ma io amai la capacità di Tarantino di ricreare certe atmosfere nel suo stile, avevo adorato l’omaggio alla manovalanza del cinema (le protagoniste lavorano come stuntman o truccatrici) e il potente messaggio femminista.
Questo preambolo non è casuale, perchè è qui il focus del cinema Tarantiniano: citazioni di citazioni di citazioni che sono dichiarazioni d’amore. E questo film non è da meno, è una dichiarazione ad un’epoca e ad un mondo incantato, abitato da principesse bionde che non vengono mangiate dal lupo cattivo.

La protagonista è Los Angeles, città mostrata con meticolosità, le luci dei locali che si accendono ogni sera, la camera che si sofferma sui cartelli stradali, un’inquadratura ad ogni cinema, arena e drive-in storico, omaggiati attraverso i lunghi viaggi in macchina dei personaggi. Los Angeles del cinema, con radio e televisioni costantemente accese in sottofondo per ricordare cosa all’epoca si sentisse, e come CI si sentisse. E qui incontriamo due personaggi speculari, un attore sulla via del tramonto (Di Caprio) che non ha mai fatto il salto e lotta per rimanere a galla, e Sharon Tate (Robbie), giovane attrice in ascesa sull’orlo del grande botto.
Per tre quarti di film seguiamo i personaggi nelle loro faccende quotidiane, Di Caprio accompagnato da un fedele Brad Pitt ci mostrano le avventure sul set, l’alcolismo latente e la professione di attore. Divertente parentesi con Bruce Lee, definito alla stregua di un ballerino. Sharon gira per Hollywood perennemente estasiata ed ingenuamente felice, decide di andare al cinema a rivedere se stessa ed emozionarsi nel cercare di predirre le reazioni del pubblico, piccola attrice in ascesa che deve indicare alla maschera quale personaggio della locandina sia. Ma ne è ben felice, Sharon è la rappresentazione vivente del sogno Hollywoodiano, compiaciuta di una vita da sogno, diva nell’abbigliamento e negli accessori, ma al contempo donna teneramente innamorata della vita. C’è sempre sole e vitalità nelle sue scene, come ci immaginiamo Sharon e il mondo che rappresenta, un mondo puro ed armonioso dove si balla sempre, in netta contrapposizione a quello decadente di Pitt-Di Caprio, fatto di sigarette, solitudine e troppi drink.

Sharon ci viene raccontata con tutta la tragicità che il suo personaggio si porta dietro, un count–down ad una fine brutale che rimane l’unico vero motivo di fama dell’attrice ai nostri giorni. Sharon Tate era la moglie DI, ammazzata DA. Eppure il film racconta la magia del cinema, talmente forte che riesce a cambiare il corso degli eventi, come in una favola Sharon non è morta per mano di quattro scappati di casa con idee del cazzo.

Ho apprezzato moltissimo la rappresentazione della Manson family, dalla prima scena in cui delle ragazze con le facce d’angelo cantano per le strade, se siete familiari con il processo Tate-LaBianca potrebbero ricordarvi le inquietanti litanie che le imputate intonavano in aula. I killer come assassini improvvisati e disorganizzati, Interessante, inoltre, non mostrare mai Charlie se non per un momento, costantemente nominato, poichè non era che un ombra che ha goduto di fin troppa esposizione mediatica. E infine l’incursione di Brad nel ranch, dove una volta giravano i western e dove è in scena una farsa inquietante. Perchè anche questo è Hollywood, dove pure i delitti nascono dalla polvere delle stelle del passato. Dove tutti regalano uno sguarda distratto alla televisione accesa.

Ma dove è l’animo Tarantiniano? Nel montaggio veloce iniziale e nelle CITAZIONI . Il limite del cinema di Tarantino è che a volte si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un bambino sovraeccitato che ha visto una bella scena di automibili che esplodono in un filmaccio sgranato, e talmente ossessionato dalla visione l’ha presa e ri-girirata con maggiore entusiasmo, asservendola sempre alla trama e senza creare stacchi narrativi. Stavolta, invece, tutte le citazioni non sono nascoste, poichè le scene che il regista ha amato sono tutte lì, senza doverle mascherare o riaggiornare, rischiando quindi di trasformare il tutto in un esercizio un po’ noioso per lo spettatore, dove regista ed attori sembrano divertirsi molto di più del pubblico in sala. I finti trailer di Grindhouse avevano più grinta e più entusiasmo.

Probabilmente lo spiazzamento principale è dovuto a questo, al fatto che Tarantino ha creato un film per una volta incredibilmente statico, contemplativo e per questo spiazzante per lo spettatore tipico, il quale riderà e si gusterà il grottesco massacro finale. Per quanto the Heightful 8 fosse de facto una piece teatrale, o Jackie Brown abbia uno sguardo sornione, tuttavia c’era un colpo di scena finale, qui il colpo di scena consiste nell’assenza di colpo di scena. Spariscono i dialoghi da antologia, spariscono le scene epiche.

La debolezza della pellicola è dovuta al fatto che tutti i temi rappresentati sono già stati visti nel suo cinema, dove la presenza del solito gruppo di professionisti, delle Red Apple non riescono a regalare quell’aurea maledetta che era presente in altre storie del regista, ma appunto è una favola e quindi i toni sono compromessi.