mercoledì 3 maggio 2023

Il Sole dell'Avvenire

Meta cinema, film nel film di un regista chiamato Giovanni anziché Michele Apicella che gira con poca ispirazione e pochi fondi un film ambientato nell’Italia anni 50, questa è la premessa e sinossi dell’ultimo film di Moretti. 

La pellicola appare un po' fiacca, può sembrare una sfilata degli stilemi morettiani riaggiornati in maniera contemporanea: il giro in monopattino anziché in vespa, lodare il quartiere Mazzini anziché Garbatella, parlare male dei film odierni intrisi di violenza anziché tormentare il critico cinematografico che consigliava “Harry pioggia di sangue”, urlare ‘siamo uguali da loro ma diversi’ in bianca e qui strappare il manifesto di Stalin dal set della sezione del PCI, e l’elenco è talmente lungo da sembrare quasi fan service, in rilievo anche il suo modo di parlare che è quello tipico di Moretti ma che stavolta sembrava imitare grottescamente se stesso.

Però non è solamente il ricalcare le sue vecchie manie e le sue vecchie glorie a disturbare quanto la profonda mancanza di avere qualcosa da dire, il film gira intorno a sé stesso e se ha un paio di scene azzeccate (la scena in piscina, la scena da Netflix che vale più di tutta la quarta stagione di Boris e la scena in cui interrompe le riprese del film che celebra la violenza), per il resto si perde, al punto di trovare rigenerazione in un finale ‘what if’.

Eppure, Nanni Moretti nel 2015 ha girato un film stupendo sul suo percorso artistico e politico, sul suo ruolo di intellettuale, sulla relazione con la sua famiglia e la sua storia personale, sulla sua capacità di chiedersi se abbia ancora qualcosa da dire, ed è "Mia madre". Opera integra e profonda, diretta e delicata che va oltre la maschera qui esasperata.

Sì perché qui invece non c’è nulla di nuovo e soprattutto nulla da dire, tanto da chiedersi se il finale dall'aspetto positivo ed evocativo sia sufficiente a salvare l'intero film.

Come si è passati da splendidi quarantenni a questo?